piloni e cappelle campestri (pagina dimostrativa)

 

Cappella Madonna della Neve (o dei Barbé)
Sulla provinciale per gli Abrau, all'incrocio con la strada diretta a Fontana Nata, ci imbattiamo nella cappella campestre che il Nallino chiama più propriamente la cappella di Maria Vergine della Neve e la mappa generale del diciottesimo secolo la cappella "detta dei Barbieri".
Per spiegarne il curioso soprannome, e quindi l'origine stessa, ancora una volta ci viene in aiuto il Botteri, testimone attento ed attendibile del suo tempo: sotto l'antico affresco interno (ora sparito), raffigurante la Madonna con Gesù Bambino ed il vescovo san Grato, egli ebbe modo di decifrare un'iscrizione in lingua latina dalla quale risultava che la cappella fu innalzata nel 1609 per volontà di Giovanni Michele dei Valle, medico chirurgo (o barbiere, come si chiamavano volgarmente allora i salassatori), probabile parente di quell'omonimo Valle che nel 1655 si distinse a fianco del padre Giovan Battista nell'epica badìa di carnevale organizzata ai danni dei frati certosini. Da altre iscrizioni, anch'esse cancellate dal tempo, egli intuì poi al 1700 vennero eseguiti accurati lavori di restauro, e forse costruita la volta.
Nel 1736 la facciata fu decorata con l'immagine della Madonna di Vicoforte, accompagnata dal distico latino che tradotto suona pressappoco così: "Chiunque tu sia a transitare da queste parti, prega con devozione Maria, se desideri andare e tornare felicemente: 1736".
Nei primi anni dell'ottocento don Francesco Decaroli, proprietario della vicina villetta della Perona, provvide a far ricoprire l'antico affresco dell'altare con un quadro ad olio ed ai soggetti precedenti volle aggiungere quello di san Francesco.
Dopo questo intervento le condizioni generali della cappella presero à peggiorare di anno in anno al punto che la relazione di don Gastaldi del 1828 la definisce male in arnese e non più officiata da tempo. Nel 1888 don Oreglia conferma il quadro desolante e poi conclude: "Si fanno voti" che il supposto proprietario (il capitano Sebastiano Caramelli) o la pietà dei fedeli vi metta mano a ripararla, per salvarla dalla totale rovina a cui va incontro" .
Ed invece, a guastarla ancor di più giunsero le vandaliche scorribande di ladri e monelli. Sacrilego l'atto commesso nella notte tra il 16 ed il 17 maggio 1921, in una delle fasi più acute dell'anticlericalismo e della lotta politica, quando gli arredi furono rovinati ed il crocefisso mutilato fu scagliato in mezzo alla strada: "Però uno dei partecipanti al gesto - commentò don Veglia sul bollettino parrocchiale del 6 ottobre 1928 - pagò ben duramente il fio della sua colpa".
Si era appena messo riparo alle deficienze più vistose per iniziativa della maestra Bartolomea Serraglia e di Lorenzo Curetti, che nell'ottobre del 1928 l'immagine della Madonna dipinta sulla facciata fu sfregiata da alcuni colpi di fucile sparati da cacciatori di passaggio. L'episodio suscitò enorme impressione in tutti i chiusani e li spinse ad intervenire nuovamente con generosità. Cominciò il colonnello Arimondi col donare un bassorilievo in ceramica, tipo Della Robbia di Firenze, collocato sulla facciata nel marzo dell'anno seguente nel corso di una toccante cerimonia officiata da don Bonino in concomitanza coi festeggiamenti alla Madonnina degli Abrau.
Nell'agosto del 1930 i fondi raccolti da un gruppo di animatori, ancora una volta capitanati dall'impareggiabile maestra Serraglia, permisero di sostituire il quadro ottocentesco gravemente deteriorato dall'umidità con un dipinto su tela del pittore don Simone Morra.
Nel novembre del 1956, infine, il muratore Cristoforo Gastaldi, coadiuvato da alcuni volenterosi della zona, riparò il tetto e all'inizio degli anni sessanta, per interessamento di Annita Mauro, che ogni anno veniva da Marsiglia a trascorrere alcuni giorni nel paese natio, tinteggiò la facciata; la stessa Mauro provvide alla decorazione interna.
Numerose sono le tradizioni che si narrano sul suo conto.
La più antica ricorda che il 5 agosto di ogni anno i confratelli della SS. Annunziata erano soliti recarsi in processione fino alla cappella per assistere alla messa celebrata dal loro rettore. Cessata l'usanza, intorno al 1940 le sorelle Francesca e Bartolomea Serraglia lasciarono in eredità alla parrocchia di sant'Antonino una somma affinché i rituali festeggiamenti in onore della Madonna potessero rinnovarsi ogni anno, cosa che avvenne per un certo lasso i tempo, a quanto ci risulta.
Curiose storielle si narrano poi sulla presenza di masche nei dintorni della cappella, tutte legate a gesta burlesche di buontemponi in cerca di divertimento o ad errate interpretazioni di fenomeni naturali.
Fantasiosa e non meno ricca di fascino appare la leggenda della sua origine.
Si narra che al tempo dei saraceni (ma l'episodio potrebbe esser benissimo ambientato nel secolo XV quando feroci bande di ventura calcavano il suolo chiusano in cerca di gloria e di bottino), una squadraccia di senzafede si era accampata in un fortilizio arroccato sul colle d'Ardua in attesa di piombare sui paesi del fondovalle per compiere nuovi efferati misfatti. Avvisata del pericolo incombente, la popolazione chiusana non trovò di meglio che rivolgere un'accorata supplica alla Vergine. Come accade nelle favole a lieto fine, la voce di tante anime innocenti venne ascoltata: il cielo terso d'agosto fu all'improvviso oscurato da un'enorme massa nuvolosa. Il capo islamico, un vecchio dalla lunga barba bianca e dalle folte sopracciglia, comprendendo che qualcosa di strano e di grandioso insieme stava per accadere, fece appena in tempo a gridare ai suoi uomini: "Neve, neve! Fuggi, fuggi!", che una fittissima nevicata cominciò a scendere ed a coprire ogni cosa. Intimorita da un evento tanto straordinario, la banda non solo sloggiò in tutta fretta dall'accampamento, ma lasciò la valle Pesio per mai più farvi ritorno. In ricordo del fausto avvenimento, conclude la leggenda, i chiusani vollero dedicare quel giorno d'agosto alla Madonna ed erigerle alcune cappelle campestri.
La presenza di san Grato tra i soggetti affrescati ci suggerisce invece una motivazione di salvaguardia delle coltivazioni dalle avversità atmosferiche più devastanti, come le grandinate, assai frequenti in quegli anni, secondo le informazioni fornite dalle delibere comunali: "Com'è notorio a tutti, sono più di venticinque anni in qua che ogni anno in qualche parte del finaggio la tempesta ha dissipato li frutti (...). Sarebbe bene, a imitazione d'altri, raccorrer al agiuto di qualche santo particolare, qual interceda per noi appresso sua divina Maestà" (Ordinati comunali, 25 aprile 1621).