opere del fuoco (pagina dimostrativa)

 

Dinamica demografica ed economica nella Chiusa di metà Settecento
Seppur supportati da una documentazione approssimativa in quanto confezionata agli albori delle indagini statistiche, possiamo rilevare che il comune della Chiusa, dopo secoli di stasi, a partire dalla prima metà del Settecento è interessato da un sostanziale incremento della popolazione.
L’impennata demografica è attestata negli incartamenti dell’Archivio comunale di Chiusa Pesio (d’ora in poi ACC) dagli elenchi dei contribuenti: mentre nella rilevazione di inizio secolo il numero degli abitanti ammonta a 2.360 (1.625 dei quali residenti nel capoluogo, 490 in alta valle, 245 in pianura), in quelle redatte tra il 1780 ed 1790 la popolazione supera stabilmente le 4.200 unità (2.300 circa nel capoluogo, ben 1.400 nell’area di montagna ove si avverte il maggior rafforzamento numerico, 500 in pianura). Il trend positivo è confermato dal censimento del 1806, il quale inserisce la Chiusa ad un buon livello tra i comuni dell’arrondissement di Cuneo con 5.470 cittadini, e dal successivo del 1837 che fa salire il numero degli abitanti a 5.840.
Sul piano economico assumono fondamentale rilevanza sia la “Misura generale del territorio e finaggio della Chiusa” del 1699 (riprodotta parzialmente dal Botteri, ma non più reperibile nell’ACC), sia alcune annotazioni raccolte qua e là nelle delibere comunali, soprattutto se raffrontate al dettagliato “Catasto di campagna” del 1777. Da questa massa di dati emerge l’immagine di un territorio quanto mai variegato e diversificato nelle colture che costituiscono l’ossatura dell’economia locale: su un totale di 24.160 giornate (ogni giornata corrisponde a 3.800 metri quadrati circa), ben 6.835 sono occupate da foreste ad alto fusto, 5.464 da boschi di castagni, 3.035 da pascoli alpini, 2.630 da pascoli comuni, mentre in pianura i campi raggiungono le 2.723 giornate, i prati 790, gli alteni 397 (negli alteni le viti sono consociate a tutori vivi, come olmi, salici, aceri, e gli spazi intermedi coltivati a frumento, legumi e ortaggi mediante lavorazioni agricole effettuate con l’ausilio degli animali).
Proprio la fertile area pianeggiante collocata agli estremi confini settentrionali del comune, sopra e sotto la Ripa, sin dai secoli precedenti ha conosciuto uno sfruttamento intensivo grazie allo sviluppo di vaste tenute di campagna di proprietà della ricca borghesia chiusana (compresa la casa feudataria dei conti Solaro di Moretta) e della Confratria del Santo Spirito. Nel Catasto del 1777 esse risultano gestite dai mezzadri e da coloni affittuari. I primi risiedono sul fondo con la propria famiglia e dividono il raccolto a metà col padrone, eccezion fatta per il fieno che viene consumato interamente dal bestiame e per il quale pagano un quid; i secondi corrispondono al titolare una somma proporzionata all’estensione, al tipo di coltura ed alla redditività del terreno. Come si evince dalla lettura dei “Contratti di affitto con la Cascina di Santo Spirito” conservati nell’ACC, nell’ambito della rotazione agraria triennale una quota è destinata a grano o segala, un’altra a orzo, granoturco o miglio, l’ultima a prato. Ogni famiglia non manca di coltivare un certo numero di alberi da frutta, qualche filare divite per il consumo personale e soprattutto alcuni gelsi, destinati all’allevamento del baco da seta.
Mano a mano che si sale in direzione del capoluogo, a fianco dei cascinali affittati o concessi a mezzadria, si fanno strada le piccole aziende curate da coltivatori diretti, così come avviene sulla sponda opposta del Pesio tra le aree di San Giovanni Battista e Peveragnina, dove si evidenziano le proprietà appartenenti ad enti religiosi, quali il monastero delle Terziarie di Santa Chiara. Nella piana di Gambarello, a monte del capoluogo, spicca un pugno di cascinali amministrati tutti da massari. Infine nell’area superiore di media ed alta montagna, ad esclusione del patrimonio certosino e della cascina delle monache a Lungaserra, solo tre sono i poderi in mano alla borghesia locale gestiti da massari; il resto è spezzettato in centinaia di modesti appezzamenti messi a frutto con sistemi intensivi, ma poco redditizi, da una miriade di coltivatori diretti.
Per quanto concerne la produzione agricola, ci limitiamo a citare un manoscritto conservato presso la Biblioteca del Seminario vescovile di Cuneo (Compilazione dimostrativa delle cognizioni prese nel Dipartimento di Cuneo dal Commissario di guerra Sale), il quale alla voce Chiusa riporta testualmente: “Produce questo territorio qualche quantità di frumento, segla, fieno, e marsaschi, non però a sufficienza abbondante per comune sostentamento; egli è però copioso di castagne, biada e legna, generi che si commerciano su de’ mercati di Cuneo e del Piemonte”. Il comune è segnalato da un’altra relazione coeva quale miglior esportatore di castagne con ben 34 mila sacchi annui.
Il pascolo del bestiame è praticato dai “particolari”, cioè dai piccoli allevatori, “longo i ripaggi de’ propri beni, nei boschi castagneti, quali di spettanza de’ particolari, servono tuttavia per legge consuetudinaria di comune scarso pascolo al bestiame”. In estate molti capi non utilizzati nei lavori agricoli sono trasferiti nei pascoli di montagna, i cosiddetti gias o Alpi, di proprietà del comune o dell’ente certosino. Il censimento delle “bocche” del 1700 valuta il patrimonio bovino intorno alle 930 unità, metà disperso in piccole stalle all’interno del capoluogo, 270 in vallata, il rimanente in pianura. Sul finir del secolo il numero complessivo dei capi si presenta di poco superiore, ma con un carico più modesto per il capoluogo.
Mentre i bovini vengono allevati anche in relazione al loro impiego nelle attività agricole, i caprovini prevalgono nella fascia di media montagna per la loro maggior adattabilità al pascolo più magro. Soprattutto le capre costituiscono una vera e propria fonte di sostentamento per le famiglie disagiate, le quali ne tengono non più di due o tre per volta. Le pecore, invece, sono per lo più in mano a pochi allevatori che commerciano latte e lana. A fine secolo il numero dei caprovini si presenta in netto calo, a causa della difficoltà nel commerciare lana di qualità scadente.
Una notevole fonte di reddito scaturisce dal taglio della legna e dalla produzione di carbone, acquistati dai privati per il riscaldamento domestico o dalle imprese del capoluogo e dei paesi limitrofi per il funzionamento di fucine e fornelli. Tuttavia il prezioso patrimonio forestale è soggetto all’assalto indiscriminato sia dei coltivatori diretti, che intendono estendere l’area da adattare a colture, sia dei boscaioli e dei carbonai abusivi, i quali di nascosto asportano legna e producono carbone da rivendere di frodo “a loro bell’agio” a officine della zona. La loro attività, benché nota alle autorità locali, spesso accusate di connivenza coi trasgressori, negli atti comunali è definita assai dannosa in quanto rende il suolo “allo stremo sterile e impotente di modo che non germina per molti anni avvenire”, così come è ritenuto deleterio il pascolo caprovino nei giovani impianti forestali.
Alla vigilia del rinnovamento tecnologico che investe il mondo imprenditoriale alla metà del settecento, le potenzialità industriali in valle Pesio appaiono più che discrete, grazie alla presenza di un vivace tessuto produttivo spontaneo, radicato sia nelle attività a carattere prettamente famigliare e stagionale quanto nelle modeste imprese artigianali. Nei documenti dell’ACC sono in crescita i mulini, le fornaci da calce alla Roccarina, le segherie, le filande, le fabbriche di stoviglie comuni e le aziende metallurgiche in genere, anche se spesso opifici di diversa natura e caratura sono allogati nello stesso fabbricato per meglio ammortizzare la spesa di costruzione e manutenzione e di conseguenza rendere più competitivi e appetibili i servizi.
Le imprese possono contare sullo sfruttamento dell’energia idrica prodotta dal torrente Pesio e dalle sue diramazioni principali, tuttavia la loro prestazione è saltuaria, in quanto dipende dal regime incostante delle acque.